Il campetto, i sogni e quella nostalgia

L’eliminazione dell’Italia dai prossimi Mondiali in Qatar brucia ancora e da quando si è materializzata nella testa di ogni amante del pallone è cominciato il processo di ricerca delle colpe e delle motivazioni che ci hanno portato alla seconda esclusione consecutiva da un Mondiale di calcio. Una cosa mai accaduta prima. Ognuno di noi ha avanzato, parlando con gli amici o disquisendo con in colleghi la propria ricetta e la propria idea sul perché di una debacle così clamorosa. Chi scrive ha egli stesso cercato a monte le problematiche del calcio italiano che solo pochi mesi prima sembrava in piena rinascita grazie al capolavoro del C.T. Mancini e del suo staff con la conquista dell’Europeo 2021. Molto spesso però ci piace illuderci e raccontarcela perché nelle emozioni e nelle gioie viviamo meglio e capita di nascondere la polvere sotto al tappeto. E’ evidentemente quello che è successo con la Nazionale o in maniera più estesa e veritiera col calcio italiano in generale. Chi vive questo sport come una passione, come il racconto di un sogno di ogni ragazzino che ce l’ha fatta nonostante tutto e nonostante tutti non può non essere travolto dalla malinconia di un calcio che non c’è più. Quel calcio che si viveva fino agli anni 80/90 giocato in cortile, per le strade o negli oratori. E questa nostalgia è alimentata nello scrivente dopo essersi imbattuto in una fotografia e in un post di un’amicizia su Facebook che hanno riportato alla mente i tanti pomeriggi d’infanzia trascorsi a rincorrere un pallone nel campetto della parrocchia dopo aver fatto i compiti o dopo il catechismo. Partite che duravano ore e a cui partecipavano tanti ragazzini di diverse età e provenienza, ma ognuno con la spocchia e la convinzione di essere il migliore e magari osservato da qualche adulto appostato a bordo campo e alla ricerca del “talento di periferia“. Era un calcio diverso, più puro. Era un calcio migliore sotto il profilo dell’etica, ma anche della formazione. Proprio su quei campetti in parrocchia o in quelli di periferia gli “osservatori” transitavano alla ricerca dei giovani talenti per poi scritturarli per la loro società e avviare i ragazzini ad un percorso alimentato dal sogno di poter emulare le gesta dei grandi del passato. Oggi tutto questo non c’è più, nella stragrande maggioranza dei casi chi fa scouting ha perso il contatto con queste realtà, realtà stesse andate disperse perché l’evoluzione della tecnologia ha preso il sopravvento nell’occupazione della testa dei bambini e degli interessi degli stessi. Chi fa scouting molto spesso si affida o si fida del cosiddetto procuratore senza spendersi in un giudizio in prima persona. Si è persa una certa cultura con la quale si cercava di allenare le qualità dei singoli e consentire all’estro e al talento di fare il loro percorso. Oggi i settori giovanili, nella maggior parte dei casi, antepongono il risultato alla formazione e allo sviluppo delle qualità del singolo. Si arriva ai campionati primavera con rose composte in gran parte da stranieri che inevitabilmente tolgono spazio ai giovani italiani perché alle spalle ci sono interessi economici o ragioni a noi comuni mortali sconosciute. E così da tempo immemore non emergono più i giocatori alla Mancini, alla Baggio, alla Del Piero, alla Totti che grazie alle loro qualità hanno contribuito spesso a tenere alto il livello del calcio italiano in Europa e nel mondo. Lo sosteneva Fabio Caressa, in un suo servizio del 2014, che nei settori giovanili si predilige la fisicità alla tecnica proprio perché grazie a quella è più facile ottenere risultati nell’immediato. A tal proposito è sottoscrivibile quanto sosteneva Antonio Cassano: “Gli altri si allenano per vincere scudetti, io gioco per essere felice“. Aveva ragione da vendere Fabio Caressa ed oggi ci ritroviamo con un movimento più povero nel quale è sempre più raro, se non impossibile, trovare un talento emergente sul quale puntare e al quale concedere il diritto legittimo di sbagliare per imporsi. Sono un nostalgico di quei campetti di periferia e del valore umano che li calcava perché lì si cominciava a cullare il sogno di emulare le gesta dei grandi del passato. Ogni ragazzino deve continuare a sognare ed ognuno di noi comuni mortali, innamorati del pallone, dovrebbe poter sognare di veder nascere una stella magari proprio su un campetto di periferia.

Foto di copertina dal profilo facebook di Franco Pardolesi scattata a Santa Maria del Fiore (Forlì) nel 1963.
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Pubblicato da Luca Gramellini

Laureato in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Bologna da sempre affascinato dal giornalismo sportivo. Scrivere è sempre stata una passione. Essere apprezzati dipende da noi stessi, ma resta un privilegio. Non smettete mai di cullare i vostri sogni. Credeteci sempre e lottate per raggiungerli. Credete in voi stessi. I sogni si avverano.

Una risposta a “Il campetto, i sogni e quella nostalgia”

  1. Articolo bellissimo e davvero pieno di nostalgia per quello anni settanta e giù di lì in cui tanti bambini si ritrovavano in un qualsiasi prato verde o di terra a calciare in un pallone.
    Che ricordi!

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