C’è un momento, nella storia di ogni grande amore, in cui non sono gli urli a far male, ma il silenzio.
È quello che sta vivendo oggi il popolo juventino: un silenzio che pesa più delle sconfitte, più delle sentenze, più di qualsiasi rivalità sportiva.
Un silenzio che arriva dalla società, dalla proprietà, da chi dovrebbe difendere e rappresentare un’identità che si sta sgretolando sotto gli occhi di tutti.
La Juventus sta attraversando uno dei periodi più bui della sua esistenza moderna. Non è solo una crisi sportiva: è una crisi di riconoscimento. I tifosi faticano sempre di più a vedere se stessi in un club che appare apatico, distante, incapace — o peggio: non intenzionato — a tenere la schiena dritta davanti a tutto ciò che subisce.
Un club che sembra accettare, con un atteggiamento quasi servile, ogni colpo ricevuto, come se la sofferenza fosse parte del protocollo. Come se la dignità fosse un optional.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è arrivata con l’episodio gravissimo del lancio della pietra al pullman della Juventus. Un fatto che in qualunque paese calcistico evoluto avrebbe scatenato indignazione unanime, reazioni forti, prese di posizione nette.
E invece? Silenzio. Anzi, peggio del silenzio: la minimizzazione.
A farla, paradossalmente, proprio lui: Giorgio Chiellini, il “Gorilla”, l’uomo di ferro, colui che in campo incarnava identità, rabbia agonistica, appartenenza.
Sentirlo smorzare la gravità dell’accaduto è sembrata una carezza data con il gelo sulla pelle.
Per molti tifosi è stato un tradimento emotivo: non tanto per ciò che ha detto, ma per ciò che non ha detto. Per quello che avrebbe potuto rappresentare, e che invece ha scelto di dissolvere in un commento anodino.
Un’altra volta, un altro schiaffo.
Questo profilo basso, questo atteggiamento sabaudo che era un tempo sinonimo di eleganza e che oggi appare solo come un’inspiegabile remissività, stride con la realtà.
Stride con gli attacchi continui, con gli anni di sospetti, insinuazioni, processi lampo, titoli di giornale, ricostruzioni parziali.
Stride con la memoria ancora viva di Calciopoli, con la ferita mai rimarginata delle plusvalenze, con l’ennesima rinuncia a difendersi mentre gli altri club — tutti, indistintamente — pretendono e ottengono tutela, rispetto, trattamento equo.
Il tifoso juventino è stanco.
Stanco di subire, stanco di essere colpevolizzato a prescindere, stanco di essere soltanto il portafogli che finanzia un sistema che sembra non avere mai attenzione per ciò che sente. Perché andare allo Stadium, oggi, per molti, è diventato un lusso: come la settimana bianca.
Un lusso per ricchi.
Eppure, paradossalmente, quelli che sono rimasti, quelli che continuano a fare sacrifici, viaggi interminabili, abbonamenti dal costo proibitivo, sono gli stessi che tengono in vita la Juventus.
Sono il cuore che consente al club di pulsare ancora. E quel cuore adesso batte piano, batte male, batte ferito.
La sensazione — terribile, corrosiva — è che la proprietà sia disposta a sacrificare la Juventus per tutelare altro. Qualcosa di più grande, più remunerativo, più strategico.
Qualcosa che ha a che fare con equilibri economici, finanziari, industriali, non certo con il romanticismo del pallone.
Molti tifosi non hanno la certezza, ma un sospetto sì: la Juventus non è più il centro, ma un effetto collaterale, un asset utile finché serve, sacrificabile quando conviene.
Ma con cosa si gioca, qui? Con la passione di milioni di persone. Con l’amore viscerale di chi ha visto quella maglia come un faro nella vita. Con il legame più autentico che molti abbiano mai avuto: la loro unica “Signora”.
E la cosa più triste è che oggi tanti juventini confessano un sentimento che fino a poco tempo fa sembrava impensabile: il disinnamoramento.
Non perché non amino più la Juventus, ma perché sentono di non essere più amati da essa.
Eppure, basterebbe poco — pochissimo — per riaccendere ciò che arde sotto la cenere: rispetto, voce, schiena dritta, vicinanza, verità.
La Juventus può ancora tornare grande. Ma prima deve tornare Juventus.
E questo, oggi più che mai, dipende da chi la guida: dal coraggio di rappresentare una storia che merita di essere difesa, non di essere sacrificata. Perché l’amore dei tifosi è ancora lì. Immenso, intatto, pronto ad abbracciare di nuovo.
Ma nessun amore resiste per sempre quando viene ignorato.